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Racconti del passato

 

Il Buco del Piombo com'era nel 1886


Un'escursione al Buco del Piombo vista con gli occhi di un milanese della fine dell'800.
Testo e immagini sono tratti da "Emporio Pittorico Illustrazione Universale" dell'ottobre 1886.

"Pare un titolo da romanzo, da mettere insieme a quelli più o meno strampalati, più o meno criminosi, che si leggono nei feuilletons di tanti giornali.
Ma è invece, semplicemente, il nome di una curiosità geologica, quasi di un capriccio della natura, messo là come una prova delle sue forze titaniche.
La geologia, son d'accordo, non è il meglio che si possa scegliere per far gemere i torchi; e, anzi, quasi non si capisce come si possa farne argomento di una scarabocchiata che, se non altro, si vorrebbe fosse leggiera.
Ma ci ho le mie ragioni: in primis, meglio parlare di buchi del piombo che di politica; poi codesta curiosità, codesto fatto naturale, per quanto noto da tempo, non lo è tuttavia per tutti, sebbene, per i suoi caratteri, per la sua grandiosità severa e terribile, possa mettersi a paro con altri fatti della stessa natura, assai più celebri, quali la grotta di Adelsberg, in Carniola, la grotta di Antiparos, in Grecia, la grotta di Fingal, nell'isola Staffa, la montagna spaccata, a Recoaro, e quant' altre ce ne sono; in ultima analisi, che la si prenda con un' idea, o con una pagina di storia, o con un libro di letteratura, o con un principio o con un fine, ciascuno di chi scrive ha nella musica delle proprie parole un tono, un diapason che, per mutare d' argomento, non muta d' espressione, di colore, di effetto.
Non vi annojerò quindi più del solito.

Poeta, avrei cantato, quest' anno, un inno all' autunno: l'autunno, il quale, caso raro ormai, non ci ha guardato, fin qui, con viso tetro, imbronciato, ma con tutta la allegrezza di un sole splendido, con tutta la serenità di un cielo smagliante come oriental zaffiro; e al settembre concedette le più serene aurore, i più limpidi tramonti, salutati dai canti della villa, dal sussurro gajo dei pampini opimi, dai profumi della flora beata; e all' ottobre concede ancora libertà di sole e d' azzurro e l'alito carezzevole d' aure tepenti, quasi come un risveglio d'insolita primavera, ironia forse ai guizzi ultimi del maltalento bieco e della prepotenza irosa, elettrizzanti le fibre senili dell' uomo Agostino e dell' uomo Leone.

Tanto ò triste, monotona, squallida, la campagna intorno alla metropoli lombarda, quanto, poco lungi, di là da un raggio di venti, trenta chilometri, verso nord, la terra si presenta amena, ridente, pittoresca.

Al piano d' Erba: ogni dì festivo, ogni giorno di riposo, in ogni occasione di curiosità e di spasso, è il motto d' ordine dei buoni milanesi.

E al mattino, quando ancora tutto tace nella città ravvolta nel velo della notte, o quando appena un debole lume imbianca l' orizzonte, è un viavai di gente alla ferrovia del Nord e uno strepito allegro di impazienti che fanno ressa agli sportelli del bigllettinajo, che si pigiano ai cancelli per farsi strada e prendere d'assalto i carrozzoni. Poi via: una specie di locomotiva quadrupede, con una lunga fila di gabbie sconnesse, di baracche ambulanti, trascina centinaja di persone avide d'aria, di sole, di verde. Lungo la strada, di qua, di là, nelle stazioni, continuo scendere e salire; al piano d' Erba si arriva con lo spuntare del sole, tuffati in un mare di luce, pieno il petto d' un' aria buona, salutare, balsamica, pieni gli occhi di uno spettacolo stupendo.

Lassù, in alto, lo sguardo si lancia lon­tano, lontano, in uno spazzo di ben trenta chilometri, o per una fuga di poggi e di colli rinserrati dalle pendici briantee, dalle propaggini comascine, dal piano milanese; è uno spazzo magnifico, un tempo probabilmente tutto coperto dalle acque dell'Eupili, ora tempestato di vigneti e di gelsi, con infinite gradazioni di colori; chiazzato d'argento là dove è stesa la immota superficie dei laghetti di Annone, di Pusiano, d'Alserio, di Montorfano.

Un duro, petroso calle, rallegrato però da alte ombre protettrici e da una frescura confortatrice, dal borgo d'Erba conduce al Buco del piombo. A un risvolto del sentiero che serpeggia sui fianchi del monte, l'imponente spettacolo s'affaccia d' un tratto e sorprende con un senso quasi di sgomento. È una gola immensa di pietra, è una fauce smisurata di monte che si trova spalancata dinanzi agli occhi. Una gola, una bocca immane, che canta, che narra, non so quale storia paurosa di lotte vulcaniche, di convulsioni telluriche, di schianti, di scoscendimenti, di ruine.



Salite. Centocinquanta gradini vi portano su ad un atrio grandioso, la cui vòlta formidabile vi guarda da quasi cinquanta metri d'altezza, le cui spalle vi lasciano cinquantacinque metri di spazio per respirare a vostro bell' agio.

Sotto quest'atrio vi par strano di trovare degli avanzi di muraglie costrutte in ceppo rosso e in granito, cementate di calcinaccio, le quali fanno correre la vostra fantasia, non fino al punto, spero, al quale è arrivata la fantasia di taluni, che credettero di vedere nel luogo un antico covo di banditi. Ossia: ciò potrà fors'anco esser vero, ma non si ha alcun indizio storico per crederlo; come, d'altra parte, fondamento storico non si trova neppure per chi ha supposto essere ivi sorte costruzioni murali intorno ad una miniera di piombo.

In fondo alla gola dell'atrio, quasi come una specie di mostruoso esofago, vi attrae il buco propriamente detto, l' antro tenebroso, lo speco pauroso, del quale nessuno ha potuto mai toccare la fine.
Per un lungo tratto vi penetra la luce, e lo speco appare or più, or meno, largo otto, nove metri, alto otto o dieci, e sparso di incrostazioni calcaree. Più addentro non ci si può spingere senza fiaccole che rischiarino il passo; seguono varii antri divisi a guisa di celle, con tutto un lavorìo meraviglioso di architettura e di scoltura, dalle pareti umide, vischiose, luccicanti; dal suolo aspro di ciottoli, di massi, di scaglioni, qua e là sparso d'acqua e di pozze.
Inoltrando sempre, a un certo punto la caverna si abbassa, mentre le acque si alzano e ne riempiono forse tutta la bocca. Allora bisogna tornare indietro. All'uscire dall'antro, una rifiatata vi racconsola i polmoni angustiati dal chiuso, e vi danno nuova allegrezza le acque che dallo speco vanno ad ingrossare il torrente Bova, che si dirupa in aspro vallone, con bellissimo aspetto.
Che il cicerone manchi sul luogo, neanche dubitarne.
Tra l'altre cose, egli vi dirà, anzi vi additerà, su quei pochi ruderi che sono nell' antro, una data stata scritta, anzi pinta, in nero, da S. M. la regina d'Italia, allora, quando scriveva, principessa.
E allora, ultima meraviglia della vostra gita, guarderete con occhi strabiliati quella data, mal riuscendo a comprendere come non ancora unghia devota di archeologo realista o di monomane inglese non abbia raschiato e trafugato quel pezzo di calcinaccio, di tanta invidia degno."

 

Un sentito ringraziamento a Raffaele Fumagalli che ha ci ha suggerito l'argomento e a Roberto Sala che ci ha gentilmente prestato il materiale.

 

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